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«Ancora non mi so vestire: porto lo stesso abito da sempre». Negli ultimi cinquant’anni, Alessandro Mendini ha sfoggiato camicie ben abbottonate dai tagli classici, pochi colori. Così come Karl Lagerfel ha prediletto giacca e cravatta nere, camicia rigorosamente bianca. Occhiali da sole lui, da vista, tondeggianti o ovali, Mendini.
Un’uniforme, insomma: una divisa riconoscibile e una firma costante, che sembra contraddire tanto il colore esplosivo e il gioco raffinato di citazioni del design di Mendini, quanto lo stile trasformista eppure sempre fedele di Chanel sotto la guida di Lagerfeld. Un’identità, anche: un marchio di fabbrica.
Entrambi nati negli anni Trenta, al picco della fama negli anni Ottanta, ancora influenti fino a (e oltre) la loro morte, punti di riferimento proprio nella costante reinvenzione, Karl Lagerfeld e Alessandro Mendini hanno saputo fare del loro istinto un processo creativo rivoluzionario.
Tendenza poetica nelle parole di Mendini, erotismo intellettuale in quelle di Lagerfeld: un approccio mentale che diventa ricerca appassionata di un modo nuovo di vedere e rappresentare le cose di tutti i giorni, siano esse un cavatappi o un capospalla.
Mendini la chiama «l’anima degli oggetti», che ha sempre portato in superficie grazie all’aggiunta di un paio di occhi o di un becco. Superficie colorata, lavorata, manipolata, intessuta: l’intervento della mano (e della mente) del designer deve essere evidente.
L’abbandono dell’approccio standardizzato e formale al design industriale da un lato, l’addio alla rigidità tramandata dai canoni della moda dall’altro: a rimpiazzarli, la strizzata d’occhio, la mano davanti alla bocca per la sorpresa, il sorriso che è difficile trattenere.
È anche – e soprattutto – grazie alla messa in pratica, attraverso le esperienze di Studio Alchimia e Memphis, delle teorie di Mendini che «il pastiche diventò la firma del design degli anni Ottanta, dall’intervento di Philippe Starck al Royalton Hotel fino alla reinvenzione dei completi di Coco Chanel a opera di Karl Lagerfeld» (Alice Rawsthorn). Non è un caso, quindi, che Lagerfeld avesse un intero appartamento, quello a MonteCarlo, arredato solo con i migliori pezzi di Memphis.
«Passo la vita a studiare e cercare, un lavoro labirintico» ha detto Mendini; «È quello che mi spinge a continuare e cercare, questo senso di insoddisfazione nel mio lavoro» ha confessato Lagerfeld. Un movimento costante ma mai ripiegato su se stesso: sempre in avanti, aperto alla possibilità e sensibile al proprio tempo.
Ci si tiene, così, ben lontani dall’autoreferenzialità o dallo snobismo, e il successo mondiale di Mendini e di Lagerfeld ne è la prova. Il riconoscimento e l’ammirazione (e il plagio) vengono tanto dal pubblico colto quanto da quello pop, e non solo quelli del product design e dell’alta moda. Perché non ha mai avuto senso allontanarsi da o rinnegare il quotidiano: per questo si può anche fare una moka di design.
Sconsigliato da tutti, proprio come era successo per l’ingresso a Chanel vent’anni prima, nel 2004 Karl Lagerfeld accetta una collaborazione con H&M, disegnando una collezione che, nelle sue stesse parole, worked («ha funzionato»). E Alessandro Mendini, in un’intervista alla Stampa, si lascia scappare che con Ikea avrebbe lavorato volentieri, per il «piccolo settore di sperimentazione» che l’azienda alimenta. Nessun limite, quindi: Fendi e Chloé, Magis e Alessi, ma anche Vans e Puma, Swatch e Samsung.
A proposito di tencologia: Alessandro Mendini non ha mai nascosto di non saper «usare neanche uno dei gadget di oggi», compreso il computer, Karl Lagerfeld di non avere uno smartphone. E, nonostante tutto il colore esplosivo e gli accostament irriverenti che hanno carattterizzato la loro carriera, Mendini ha detto che l'iPad è più epocale di un cucchiaino, Lagerfeld che non c’è niente di più bello di un iPod. In fondo, anche Steve Jobs era famoso per la sua uniforme.
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