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Nuova mobilità: auto volanti e Vespe in estinzione

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Forse tra dieci anni avremo tutti appeso in soggiorno un quadro generato da computer connessi tra di loro come fossero vere reti neurali. La chiameremo Arte Artificiale.
In senso stretto, l’arte artificiale indica l’automatizzazione del processo artistico. Cioè? Contenuti generati da una AI, un’intelligenza artificiale. Cioè? Un’opera fatta da uno o più computer, senza l’intervento umano. Davvero? Sì.
Ma qualcuno preme il tasto crea? Certo. E qualcuno lo ha programmato? Sicuramente. Allora non è solo. È vero, ma c’è sempre stato qualcuno che commissionava le opere, altri che creavano i pennelli e intere accademie che insegnavano a disegnare. Quindi, tutto sommato, un po’ di merito va all’artista. Anche se è artificiale. O no?
La storia di macchine che illudono di essere intelligenti è lunga. Il Turco Meccanico, conosciuto anche come il Turco, era un finto automa capace di giocare a scacchi. L’antesignano delle AI. Fu creato nel 1769 per Maria Teresa d’Austria, quando l’esotismo era in gran voga: il Turco era chiamato così perché era vestito con abiti in stile ottomano. L’occhio vuole sempre la sua parte.
Il Turco era meccanicamente collegato a una grande scatola di legno con sopra una scacchiera. Dentro la scatola - dove in apparenza c’erano solo meccanismi - si nascondeva una persona. La personcina lì celata vedeva le mosse sulla scacchiera grazie a dei magneti e, con un sistema di leve, poteva muovere le braccia del falso automa – del Turco – per spostare le pedine. Affascinò anche Edgar Allan Poe. E finì bruciato in un incendio a Filadelfia, 5 luglio 1854.
Oggi il Turco Meccanico è una piattaforma online di Amazon a cui si possono assegnare delle mansioni: saranno eseguite non da un sistema informatico, ma da migliaia di lavoratori umani delocalizzati in tutto il mondo. Il trucco è lo stesso: all’apparenza una macchina, in sostanza un uomo. Perché ne parliamo? Perché è il Turco Meccanico che ha dato vita alla prima mostra d’arte artificiale: degli anonimi umani rispondevano ai compiti assegnati loro da un artistico algoritmo. Inquietante, forse.
In ogni caso la voglia (demiurgica) di far compiere a delle macchine un gesto umano complesso non ha mai perso la sua attrattiva. Una partita a scacchi ieri, un’opera d’arte oggi. Ma cosa, oltre alla curiosità, fa sviluppare oggi l’arte artificiale? È all’incirca la stessa ragione che dà vita allo sviluppo delle AI: capire le reti neurali facendole lavorare.
Deep Dream usa una rete neurale artificiale – computer che si scambiano dati per imitare il funzionamento del cervello umano – per cercare degli schemi, delle forme, nelle immagini e poi metterle in evidenza all’interno dell’immagine stessa. Il risultato? Strane opere d’arte provenienti direttamente dal mondo della fantasia artificiale. O, meglio, dai suoi incubi. Incubi artificiali.
Ma queste opere non sono il fine delle ricerche sponsorizzate da Google. Lo scopo è capire il funzionamento delle reti neurali artificiali. L’arte per comprendere come ragiona un computer che, grazie al deep learning, sta imparando da sé a riconoscere le immagini e, soprattutto, a produrne di nuove. Impara l'arte e mettila da parte.
Di fatto, escluse le AI tese a modificare le immagini esistenti, escluse quelle che imitano stili di pittori famosi ed escluse quelle che riconoscono un legame di qualsiasi tipo tra immagini tra loro diverse come Recognition – tutte assolutamente sorprendenti – sono ancora poche le AI che creano qualcosa di davvero nuovo. Una vera forma di arte artificiale, termine di per sé ridondante.
Restano così molte domande. Quale sarà la prima opera digitale a essere messa all’asta? Quale AI sarà chiamata per prima a fare una personale? Chi saranno i critici dell’arte artificiale: esseri umani o reti neurali artificiali? E soprattutto: cosa appenderemo alle pareti di casa quando arriverà quel momento?
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