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Aziende come Philips, Swatch, Nintendo, Alessi e Apple hanno un approccio al mercato che si definisce design driven anziché user centered come molte altre. Significa che dell’utente se ne infischiano? In un certo senso si. E come riescono quindi a soddisfare il mercato e a riscuotere successo?
Queste aziende non intendono rispondere a esigenze di mercato già esistenti (market pull). La loro strategia è quella di irrompere con prodotti ad alto contenuto di innovazione - qualcosa che nessuno aveva nemmeno mai pensato di chiedere - e di renderli poi indispensabili, caricandoli di un altrettanto alto valore simbolico.
Fanno un salto nel futuro e guadagnano anni di vantaggio competitivo sulle concorrenti che passeranno il tempo a raggiungerle attraverso innovazioni incrementali, fino al prossimo salto delle pioniere. Nel vuoto? Certo che no.
Le aziende design driven si avvalgono di interpreti molto speciali, vere e proprie antenne creative sintonizzate sulle frequenze del mercato e del contesto socio-culturale che verranno. Non parliamo di medium o supereroi, ma di utenti del mercato attuale le cui doti intuitive vengono valorizzate e nutrite dalle aziende secondo una precisa formula di management.
L’azienda in primo luogo ascolta. Fa scouting nei salotti della creatività, individuando delle sacche di potenziale creativo che, da sola, non saprebbe comunque interpretare e gestire. Per questo, forte dell’attrattività del proprio brand o della propria offerta, crea intorno a sé una costellazione di interpreti, solitamente provenienti da esperienze e settori di mercato diversi, con competenze e settings progettuali spesso molto eterogenei e propone loro un campo di ricerca.
Steve Jobs rilancia Apple collaborando con designer e progettisti provenienti dai settori più disparati: dall’entertainment ai materiali plastici colorati in uso nelle cucine e nei bagni (prima di progettare il rivoluzionario involucro colorato dell’iMac, Jonathan Ive disegnava sanitari e spazzolini elettrici). Ecco prendere forma la parabola che porterà l’azienda alle icone tecnologiche degli anni 2000, partita dai compatti, siliconici e colorati iBook e iMac. Think different.
Sono gli anni Ottanta quando Ernesto Gismondi, che poi avrebbe fondato Artemide, sfrutta la sua visione imprenditoriale e spinge le sperimentali idee di Memphis Milano sul mercato, generando una vera e propria rivoluzione del gusto. Il collettivo Memphis, composto dai nomi di maggior rilievo della scena del design italiano (Ettore Sottsass, Michele de Lucchi, Alessando Mendini e Aldo Cibic tra i molti che ne fecero parte) da anni si incontrava e impastava materiale creativo in netta controtendenza con le linee minimali e severe del good design. Nel 1981, i membri del gruppo se ne escono con un centinaio di disegni di mobili e altri oggetti, tutti con linee audaci e molto colorati, volutamente kitsch e pop.
Inseriti in una sorta di vivaio creativo, esposti cioè alle condizioni ottimali per incentivare il processo creativo, questi soggetti danno vita a nuovi linguaggi e formulano nuove visioni. Ma la chiave di tutto è il network cui hanno accesso e cui, attraverso loro, ha accesso anche l’azienda.
Le nuove proposte vengono presentate alle nicchie progettuali da cui gli interpreti provengono e a tutti i luoghi del brusio creativo, creando un discorso sopra di essi. I nuovi linguaggi vengono condivisi e nuovamente interpretati, fino a uno stadio di raffinazione che consente di canalizzarli in un processo produttivo che li porterà dallo stadio di idee a quello di nuovo prodotto o tecnologia.
Intanto, quella che all’inizio poteva essere una proposizione fin troppo visionaria ha tutto il tempo di sgattaiolare via dalla scena underground del design, di scorrere nei capillari dell’immaginario sociale e di guadagnare la buona disposizione del mercato. Ecco che il futuro prende forma e ciò che sembrava all’inizio impensabile si trasforma in uno scenario futuribile e attendibile.
Questo modello imprenditoriale virtuoso e singolare, sebbene riconducibile a diverse aziende internazionali, ha fatto la fortuna del design italiano.
Le azioni di ricerca e sviluppo di aziende come Alessi, Flos, Artemide, Kartell o della Olivetti del secondo dopoguerra non possono essere individuate né all’interno di queste aziende né nelle interazioni fra di loro, bensì coinvolgono una galassia fluttuante di architetti, fornitori, fotografi, critici, curatori, editori, artigiani, artisti e designer. Il valore dei membri di questa community dipende in parte dalle loro capacità creative e in parte dal fatto di appartenere a questo prezioso network.
Solitamente i risultati di questo processo creativo distribuito ammiccano a nuovi stili di vita e propongono valori simbolici nuovi che, se attecchiscono, garantiscono al prodotto un ciclo di vita molto lungo, meno sensibile all’obsolescenza degli aggiornamenti tecnologici e un certo premium price che ricompensa la lunga gestazione progettuale.
Prendiamo il caso dell’iconico bollitore 9093 progettato da Michael Graves (architetto postmoderno americano e docente a Princeton) per Alessi. Il suo successo attirò l’attenzione di Target, un distributore famoso per la commercializzazione di design raffinati a prezzi popolari. Nel 1999 invitò Graves a progettare una linea di prodotti che includesse una chiara imitazione del bollitore con l’uccellino. Ad oggi il 9093 di Alessi continua ad essere venduto con volumi più alti e a un prezzo cinque volte superiore a quello della Target.
Il fischio dell’uccellino che rallegra le ordinarie sveglie pre-lavorative e l’eccentrica silhouette dell’acciaio non si limitano a risolvere la funzione base di un bollitore (scaldare l’acqua) ma allargano le aspettative delle persone in merito alla colazione. Nel progetto di Graves trovano sintesi idee e discussioni di design avvenuti nel corso degli anni precedenti. L’unicità del prodotto deriva dunque da un processo basato a Milano che coinvolge attori e competenze che trascendono il prodotto stesso e forse anche la mera disciplina del design.
Scendono in campo il sigillo dell’italianità, il valore astratto del coraggio e dell’innovazione, modelli gestionali in cui i maestri di stile non sono artisti o artigiani ma manager e imprenditori. Una discorso di design tutto, squisitamente italiano.
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