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Ho trascorso gli ultimi giorni a leggere articoli, testi e interviste su Artemide. La luce era trattata in modo sfaccettato, affascinante: ricerca tecnologica ed estetica, grandi progetti e soluzioni IoT (Internet of Things) accessibili a tutti.
Tutto contribuiva a descrivere un’azienda proiettata nel futuro, ma io, per visualizzare la direzione di questa lunga traiettoria, sentivo il bisogno di voltarmi indietro e riscoprire la sua storia, quella prima di Tolomeo, prima degli anni Ottanta.
È solo in quel momento, storie e appunti sotto gli occhi, che mi è venuto il dubbio che il modo migliore per conoscere oggi Artemide non fosse davvero voltarmi indietro per osservare il passato, ma pensare al momento in cui Artemide fu fondata e guardare avanti. Così, infilandomi in un paio di mocassini anni Sessanta, è nata la domanda: Artemide sarebbe stata una startup?
La ricerca di una definizione universale di startup (scritto attaccato, con il significato attuale) tiene banco online un po’ ovunque. Startup definition restituisce circa 278.000 risultati su Google - e sembra che ognuno offra una risposta diversa. Non è impossibile, però, mettere qualche paletto: direi un paio di founders, una mission, una visione, un po’ di innovazione, crescita e scalabilità – criteri imprescindibili sulla West Coast.
Secondo questi criteri, Artemide dovrebbe essere descritta come un’azienda fondata nel 1960 da Ernesto Gismondi e Sergio Mazza, il primo ingegnere e il secondo designer, entrambi poco più che ventottenni. Due personalità forti, due profili diversi, una visione comune: innovare il campo dell’illuminazione.
E davvero, come una startup, non impiegano molto tempo: già nel ’65 Vico Magistretti disegna per Artemide Eclisse, che due anni più tardi vince il Compasso d’Oro e - anche grazie al suo carattere concettuale - diventa un’icona per il brand e il design italiano.
Pochi anni dopo, nel ’72, arriva Tizio di Richard Sapper. Un perfetto connubio tra il carattere di Mazza e di Gismondi, se parlassimo di startup: da una parte la ricerca estetica di una struttura fondata su leve e pesi, dall’altra l’introduzione, per la prima volta per una lampada domestica, di una fonte luminosa alogena. L’innovazione non manca mai in casa Artemide.
Così Artemide continua a registrare successi - e brevetti, proprio come le startup - e nel 1980 apre la prima filiale negli States. Nel 1987 scrive la storia del design con Tolomeo di Michele De Lucchi e Giancarlo Fassina e si afferma definitivamente anche oltre confine. Un’azienda scalabile - proprio come una startup californiana - che arriva ai 98 paesi in cui sono distribuiti oggi i sui progetti.
Artemide ha mostrato un’altra capacità, davvero unica: rinnovarsi, continuamente. Nel 1996 il brand sottoscrive un manifesto che è rivoluzionarlo e perentorio: con il motto The Human Light Artemide compie una mossa anti-tolemaica e rimette l’uomo al centro della luce. O meglio, la luce al servizio dell’uomo.
Artemide ha fatto raccontare se stessa e le sue opere al fotografo Elliott Erwitt – uno dei grandi della Magnum, autore di ritratti a Che Guevara, Jackie Kennedy e Marilyn Monroe – e oggi lo fa con Pierpaolo Ferrari, fondatore con Maurizio Cattelan della zine Toilet Paper, un artista che si concentra sulla ricerca della personalità delle lampade Artemide e la simbolizza attraverso immagini colorate e forti. Questa è capacità di crescere.
Leggendo tutti quei 278.000 risultati, mi sono imbattuto in questo: una startup è una piccola azienda con l'ambizione di diventare grande e cambiare il mercato in cui opera. È semplice, forse un po’ limitato, ma non è sbagliato. E, sicuramente, è Artemide.
Artemide
Michele De Lucchi
Illuminazione
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