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São Tomé e Príncipe sono due isole dell'oceano Atlantico al largo dell'Africa centro-occidentale, nel golfo di Guinea. Costituiscono uno stato indipendente e sconosciuto al turismo di massa. Lì incontro una coppia di italiani che, ritiratosi dall’impegno lavorativo nelle O.N.G., oggi gestiscono un lodge. Entrambi emiliani, dopo anni trascorsi nell’Africa nera, ogni sera si fanno preparare dal personale della propria cucina tortellini e lasagne.
Incontro anche Claudio Corallo che racconta, a me e a pochi altri visitatori, la storia del suo cioccolato in un portoghese flesso da un accento e da un’aspirazione toscani che nemmeno quarant’anni di Africa (di cui diversi nella jungla dello Zaïre -oggi Repubblica Democratica del Congo-) sono riusciti a estirpare. Quattro italiani in totale ma, sulle due isole, li conoscono tutti. Corallo produce il cioccolato migliore al mondo e per questo lo conoscono anche ben oltre i confini di São Tomé e Príncipe.
Se Made in Italy è un marchio ormai ampiamente sdoganato, comincio a pensare che esista una italian way del fare le cose che meriterebbe a sua volta un brevetto.
Corallo è un agronomo specializzato in piante tropicali che ha curato piantagioni di caffè nel cuore fondente dell’Africa quando tutto era molto più disconnesso di ora e per raggiungere il più vicino centro abitato si dovevano percorrere chilometri in canoa. Raggiunti livelli di produzione del caffè qualitativamente e quantitativamente ragguardevoli, arriva su São Tomé e Príncipe con una nuova missione che assecondi il suo Daemon irrequieto e perfezionista: studiare la materia prima del cacao, raffinarla, portarla all’eccellenza.
Claudio non accetta che si dica che il cacao in purezza è naturalmente amaro. Da buon toscano pensa all’olio d’oliva e l’olio buono non è amaro se le olive sono di qualità e i processi diligenti. Parte dalla materia prima e si fa spedire, sostenendo qualsiasi spesa, le fave di cacao migliori al mondo ma è su una delle due isole che trova il miglior prodotto grezzo.
A custodirle erano le scimmie che, golose della zuccherina polpa che riveste i semi di cacao (le fave), andavano creando interi vivai grazie alle spontanee germinazioni dei resti delle loro scorpacciate. Lì si trasferisce Corallo: in mezzo alle scimmie a coltivare cacao.
È tempo di curare i processi e capire come far tacere la nota amara del cacao. Come in ogni ricerca empirica, Corallo procede per trial and error ma, lungi dal demordere, in lui cresce un adrenalinico entusiasmo creativo.
Sviluppa un metodo di fermentazione naturale dove arriva a controllare le evoluzioni aromatiche delle fave di cacao: grazie alla giusta curva termica la fermentazione non è più il tramonto del profumo ma un passaggio trasformativo modulabile.
Anche la fase della tostatura è delicatissima: qualche minuto in più o qualche minuto in meno e il cacao perde allegria oppure diventa spigoloso. Corallo riempie interi quaderni di minutaggi e recensioni, fino a trovare l’attimo esatto e a farlo diventare infinito, consolidando la prassi perfetta.
Ma non è finita qui. Le fave del cacao sono ricoperte esternamente da una buccia legnosa (tegumento), sotto da una pellicina dorata e dentro hanno una radichetta dura e amarognola. La raffinazione più comune e approssimativa prevede che le fave vengano sgusciate a macchina e poi sminuzzate all’impazzata per arrivare a triturarne anche la resistente radichetta.
Risultato? L’amaro della radice affetta l’impasto (n.d.r. il prodotto della triturazione del cacao non è la polvere bensì -dato il naturale contenuto di burro- una crema) e il tutto, mortificato dai ridotti micron di macinazione, perde profumo. Per questo Claudio sbuccia le fave manualmente, una ad una. Ne estrae anche la minuscola radice e, non dovendone più vincere la resistenza, può tritare ad una granularità maggiore che conserva il profumo del suo amato cacao.
E infine si sbizzarrisce a mixare. Cioccolato di 100% cacao, cacao e caffè (almeno tre tipi di caffè diversi, a dire il vero), cacao e liquore, cacao e scorza d’arancia, cacao e cannella…
Ovviamente anche per la degustazione Corallo ha le sue maniacali raccomandazioni: come il vino, il cioccolato non va gustato freddo ma a temperatura ambiente. È il motivo per cui tiene le barrette nella tasca dei suoi sdruciti pantaloncini di jeans per tutto il tempo della dissertazione.
A piedi nudi, Corallo salta da un aneddoto all’altro e risponde alle domande (le stesse da quarant’anni?) con un trasporto genuino e intenso. La sua è la storia di un prodotto custom made, sviluppato con la stessa meticolosità dei viticoltori della sua terra d’origine. Una storia di ricerca e sviluppo che nasce curiosamente in Africa ma che è italiana, per modi e risultati, al cento per cento.
Vorrei potermi dire non di parte ma su due isole in cui cacao e caffè sono stati importati dall’America latina dai portoghesi prima e dai brasiliani poi, dove dal 1975 i nativi gestiscono le proprie risorse in autonomia, ad alzare l’asticella della qualità ci sono il cuoco sao tomense João Carlos Silva (una celebrità del canale televisivo RTP Africa) e un italiano.
La relazione simbiotica con il territorio, la maniacale ricerca della perfezione, l’approccio filologico alla produzione, la tenacia, la pazienza, la creatività: quanto spesso incontriamo questi elementi nelle nostre storie di design all’italiana?
Acquisto alcuni prodotti tra cui le famose bucce delle fave che Corallo mi consiglia di usare per fare delle profumate infusioni. Anche del cacao non si butta via niente.
Prima di lasciarmi andare mi mostra delle piccole ampolle all’interno delle quali conserva diverse bacche di pepe. È la mia nuova ossessione, mi confida, vorrei produrre il pepe migliore del mondo. Lo dice così, come se l’eccellenza fosse un gioco facile. Ma forse per alcuni lo è.
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