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Donato D’Urbino, il marketing e come si fa davvero la rivoluzione
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Donato D’Urbino, il marketing e come si fa davvero la rivoluzione

Donato D’Urbino è travolgente, appassionato, ironico. Si racconta con la generosità di chi non ha nulla da nascondere, e la lucidità di chi ha attraversato gli anni rifiutando ogni rigidità. Se il design italiano fosse un libro, D’Urbino ne firmerebbe uno di quei capitoli che i professori universitari darebbero come obbligatori all’esame. 

Da quando aveva trent’anni, il suo nome è associato a quelli di Jonathan De Pas e Paolo Lomazzi: altri due milanesi, altri due architetti di formazione, con cui nel 1966 Donato D’Urbino fonda uno studio che, di lì a qualche anno, si sarebbe dedicato principalmente all’industrial design. Rivoluzionandolo dall’interno con un approccio anticonvenzionale che dava libero spazio all’intuito e al progetto, al puro atto creativo. 

Appendiabiti Sciangai di De Pas, D'Urbino e Lomazzi per ZanottaAppendiabiti Sciangai di De Pas, D'Urbino e Lomazzi per Zanotta

Lo raggiungo telefonicamente mentre è in vacanza in Sardegna, a Santa Maria Navarrese. Le bellezze naturalistiche italiane D’Urbino le conosce bene e, da siciliana, gli chiedo se, oltre alla Sardegna, ami anche la mia terra. “Ho il cuore diviso a metà tra le due isole. In Sicilia vado spesso”, mi racconta. “Una volta, tantissimi anni fa, ho avuto qualche problema perché mi precipitai a mangiare la granita in pieno inverno, appena approdato dal viaggio in nave. Faceva un gran freddo ma non ho potuto fare a meno di gustarla”, ammette sorridendo. 

Chiacchierando con lui scopro per prima cosa che anche un designer del suo calibro può stupirsi per un Compasso d’Oro alla Carriera: di recente, l’ambito premio è stato infatti assegnato a D’Urbino-Lomazzi. “Non ce lo aspettavamo. Siamo stati felicissimi di riceverlo. Ma al tempo stesso ci ha sorpresi che, nell’assegnazione, non risultasse anche il nome di De Pas. Il nostro socio è scomparso nel 1991, ma con lui abbiamo condiviso 30 anni di lavoro, forse i più produttivi. Non ho ancora fatto in tempo a chiarire la questione, probabilmente non è possibile attribuire il premio a una persona che non c’è più”. 

Appendiabiti Sciangai - Second Chance
Sgabello Giotto
Appendiabiti Sciangai rovere- Second Chance

De Pas, D’Urbino, Lomazzi 

Come Lennon-McCartney, i nomi dei tre architetti viaggiano congiunti e in rigoroso ordine alfabetico. Come la più celebre coppia della canzone, anche il loro studio firmava sempre i progetti in trio, fino a quel triste 1991. 

Come Gio Ponti, Marco Zanuso, Achille e Piergiacomo Castiglioni e tanti altri anche voi vi siete formati come architetti e poi avete lavorato principalmente come designer. 

Sì, abbiamo studiato architettura e nei primi anni della nostra carriera abbiamo fatto gli architetti edili, progettavamo edifici. Ma la passione per il design era sempre stata presente. Ricordo ad esempio che quand’ero all’università scrissi per un esame una tesina su Marcello Nizzoli, un grande del design. Per un periodo con lo studio abbiamo fatto più architettura e poi, pian piano, ci siamo focalizzati sull’industrial design. Non era solo una questione di interesse: noi eravamo giovani e il design premiava (e premia tuttora) i creativi. Più dell’architettura, che è un settore molto meno meritocratico. Se eri creativo, le tue idee erano accolte dall'industria senza problemi. Certo, è un discorso molto generico che ammette mille smentite.

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Non doveva essere semplice però lavorare in tre. Come vi approcciavate al processo creativo?

È una domanda interessante anche perché forse eravamo gli unici a lavorare in tre. Ci voleva grande equilibrio e rispetto delle idee altrui. Ci sedevamo attorno al ‘tavolo dove si costruiva e si distruggeva tutto’, ognuno presentava il proprio progetto e poi dava il via al tiro al segno. L’intenzione era salvare solo le idee migliori, ma magari abbiamo mandato al cimitero anche qualche buon progetto. I risultati comunque erano ottimi, anche se il lavoro in collettivo era molto più lungo. Col tempo le riunioni si sono fatte meno frequenti, anche perché ci conoscevamo abbastanza da prevedere le critiche altrui ancora prima di presentare un’idea. 

Si ricorda qualche aneddoto? Ad esempio, com’è andata la discussione sull’iconico appendiabiti Sciangai, prodotto da Zanotta? 

Il progetto dello Sciangai non è piaciuto subito a tutti, ma uno di noi l’ha portato avanti e gli altri l’hanno capito solo quando hanno visto il prototipo. Poi ne abbiamo fatto la bandiera dello studio. Perché succedeva anche questo, che si cambiasse idea. Spesso le discussioni erano interminabili e non si riusciva ad arrivare a un risultato condiviso. Quindi, per non sprecare energie intellettuali, abbiamo deciso che chi difendeva ad oltranza un’idea avrebbe dovuto portarla avanti fino in fondo, sottoponendola di nuovo al giudizio più avanti. E in quel caso, passando il tempo, capitava che si sposasse un’idea a cui inizialmente si era contrari. È successo con un oggetto che ricordo molto bene, una sediola per bambini: all’inizio fu una pioggia di critiche, seguite poi da graditi apprezzamenti.

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I materiali innovativi e l’evoluzione del design

Gli anni’60-’70 furono un periodo molto dinamico per il design: c’è ancora spazio per il coraggio oggi?

All’epoca, che coincise col primo periodo della nostra vita professionale, il pubblico giovane stava sostituendo le generazioni più anziane e i modi di vita si stavano trasformando. L’obiettivo era quindi progettare un design per quel mondo nuovo. C’era bisogno di innovazione, si lasciava spazio all’atto creativo e le aziende più sveglie erano pronte a investire in idee intelligenti, interessanti, anche se distanti dalla propria solita produzione. 

Oggi la situazione è più complessa, il mercato è saturo di idee e di prodotti. Per le aziende è difficile stare a galla e l’innovazione non può ahimè ignorare le esigenze immediate del mercato. 

Le esigenze ambientaliste sono sicuramente un driver. Luglio ad esempio è dedicato al‘no alla plastica’, che pure è stata fondamentale per lo sviluppo del design. 

È tardi per diventare ecologisti. Vai in un negozio e ti ritrovi mille confezioni di plastica, compri del formaggio e ti danno quasi più plastica che formaggio. È una questione più grande del design, i designer hanno una responsabilità limitata. È una questione politica: è la chimica che deve fornire una soluzione, fare passi indietro sarà lungo e difficile. Bisogna comunque interrogarci sulla fine dei prodotti e delle confezioni dopo l’uso. La possibilità di riciclarli è fondamentale: ma bisognerà andare verso il biodegradabile per tutti i prodotti, come già coi sacchetti di plastica del supermercato. Quando vado a fare la spesa cerco di rifiutare troppa plastica, ma la sensibilità dei commercianti in merito è molto bassa.

D’Urbino e il bosco verticale di Milano

Quale recente progetto di design avrebbe voluto firmare? 

È difficile dirlo su due piedi, ma ho la risposta per l’architettura: è il Bosco Verticale di Boeri Studio, nella mia Milano. È un’idea alla quale avevo già pensato ma non avevo né la clientela né l’entourage giusti. Mi piace moltissimo e, a confronto, gli altri grattacieli sembrano masse di vetro prive di significato. Il giardino verticale rappresenta un’istanza ecologica che sento molto nelle mie corde. 

Qual è il progetto di cui è più fiero o di cui conserva il più bel ricordo? 

Difficile rispondere, perché forse non ho un oggetto preferito. Tenderei ad avere una passione particolare per quelli che ho seguito in prima persona con le aziende, perché ci ho messo più anima, più entusiasmo, anche più fatica. Ma non posso dirle quali sono, perché i progetti sono sempre stati firmati e condivisi da tutti.

Inoltre devo ammettere che abbiamo progettato talmente tanti oggetti che alcuni li ho anche dimenticati: me ne sono reso conto di recente, facendo ricerche nell'archivio per mettere insieme il mio sito. Ed è stato bello riscoprirli e ricordare tante 'avventure'.

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