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Sedie: riesci a pensare a un oggetto più comune e quotidiano? Se, come dice il celebre designer inglese Paul Archer, il problema di design nasce da un bisogno, capirai allora che attraverso la storia delle sedie si potrebbe ricostruire la storia del design.
Eppure storicamente, sin dai tempi della civiltà egizia, sedersi da soli e su sedute dotate di schienali o braccioli era un simbolo di potere, un privilegio riservato a vescovi, magistrati, aristocratici. Ai comuni mortali non restava che accomodarsi alla bell’e meglio per terra o accontentarsi di panche e sgabelli.
In effetti le sedie sono oggetti molto più complessi di quanto sembra. Come edifici in miniatura, devono essere belli ma anche pratici: parola dell’architetto Witold Rybczynski, autore del saggio Now I Sit Me Down.
Ecco perché rappresentano un banco di prova per i designer, un’opportunità di sperimentazione progettuale. Pensa a cosa diceva Bruno Munari:
Il parossismo della semplificazione? Far convivere arte e design. Come nella Sedia per visite brevissime, risposta ironica di Munari alla frenesia dei tempi moderni:
Flash forward a più di 60 anni dopo. Nel 2010, al MoMA di New York, una performance da record celebra ancora una volta l’identità arte/vita.
Protagonista è Marina Abramovi?, che per un totale di 700 ore, sei al giorno per sette giorni a settimana, resta seduta immobile e in silenzio su una seggiola in legno nell’atrio del museo, con lo sguardo fisso su un’altra sedia identica posta di fronte a lei. Qui, nel corso dei minuti, si avvicendano persone comuni, celebrità e, con sorpresa dell’artista, anche uno dei grandi amori della sua vita.
Sono altrettanto archetipiche le molteplici sedie che formano, assieme a qualche tavolino, l’essenziale scenografia di Café Müller, spettacolo-manifesto del Tanztheater di Pina Bausch giunto quest’anno al suo 40° anniversario.
Tra le note di Henry Purcell e i silenzi densi di significato, il rumore violento di queste sedie da bar spostate o gettate a terra dai danz-attori fa eco a rapporti umani problematici e irrisolti.
Le classiche sedie da cucina in legno diventano nell’arte un simbolo di convivialità e vita quotidiana, un elemento con cui è impossibile non rapportarsi. Ecco perché nel 2003, in occasione dell’ottava Biennale di Istanbul, la scultrice colombiana Doris Salcedo le sceglie per l’installazione 1550 Chairs Stacked Between Two City Buildings.
Quasi duemila sedie vengono ammucchiate per riempire la voragine lasciata dalla demolizione di un edificio, con l’obiettivo di rievocare la tragedia quotidiana della violenza politica e i flussi di migranti senza volto né voce.
Dieci anni dopo, l’artista Fumiko Kobayashi usa sedie e vestiti per rappresentare con drammatica evidenza la devastazione del Giappone post-tsunami al Mori Art Museum di Tokyo.
Sono bianche e in acciaio le sedie scelte dall’artista tedesca Angie Hiesl per un’installazione itinerante da guardare col naso all’insù, X-Times People Chair.
Donne e uomini tra i 60 e gli 80 anni, tutti attori, si esibiscono per ore nello svolgimento di reiterate attività quotidiane: leggere, bere il tè, tagliare il pane, piegare i panni. Seduti, ovviamente. Ma a sette metri dal suolo, con le gambe a penzoloni su passanti esterrefatti.
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