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Si dice che Italo Calvino ne avesse addirittura tre, mentre Raymond Carver si accontentava di quello della cucina.
Quello di Cesare Pavese all’Einaudi era rimasto segnato dalle infinite sigarette che consumava ogni giorno; quello sotto cui si nasconde Joel in Eternal Sunshine of the Spotless Mind sembra il classico modello in formica, lo stesso su cui facevi le merende da nonna.
Un bambino delle elementari lo disegnerebbe con quattro gambe - anzi, due, nel suo mondo ancora bidimensionale - mentre un designer potrebbe creare uno strano ed elegante supporto d’acciaio, come ha fatto Citterio per Kartell.
Invaso dai fogli oppure apparecchiato con cura, per intrattenersi con gli amici o per discutere del prossimo progetto: un tavolo può sostenere - letteralmente - una conversazione, un pranzo, un gioco o una trattativa.
Un tavolo raccoglie, anche: idee, persone, oggetti. Circoscrive e mette in comunicazione, diventa un punto di incontro e di concentrazione. Ma, soprattutto, serve a dare un contesto:
Sul tavolo da lavoro di Umberto Eco avresti potuto trovare uno stick di colla Pritt e una lente di ingrandimento, alcune medaglie prestigiose e un tappetino per il mouse con un cucciolo di foca che sorride beato.
Il tavolo dello scrittore, dell’artista o del designer è importante quanto l’opera a cui stanno lavorando. Non solo perché su questo è appoggiata, ma perché è proprio al tavolo che vengono raccolte, fisicamente e metaforicamente, le idee.
Puoi sceglierle di tenerle organizzate come faceva Giovanni Pascoli, che aveva un tavolo dedicato alle poesie, uno per gli studi dantistici e uno per il latino.
Oppure potresti lasciarti ispirare da Roland Barthes, che teneva gli appunti di Bertold Brecht accanto a quelli sui detersivi: per lui il tavolo era un luogo di contaminazione, dove le idee venivano messe in contatto e in dialogo tra loro.
Un film dal sapore teatrale: è La parola ai giurati (1957), ambientato per lo più nella stessa stanza, con gli stessi attori, in un arco di tempo realistico - quasi come prescriveva Aristotele.
Dodici uomini formano una giuria popolare che deve esprimersi a favore o contro l’accusa di parricidio mossa a un ragazzo. L’apparente condanna unanime viene messa in discussione dal giurato 8, interpretato da Henry Fonda, che invita gli altri a ripercorrere tutti gli indizi e a porsi le domande giuste, al contrario di quanto ha fatto l’accusa.
Con il passare del film, le inquadrature si stringono sempre più attorno ai tavoli e sui visi dei giurati, che si confrontano, si smentiscono, si sostengono e si attaccano da un capo all’altro, senza lasciarsi tregua.
Per esprimere dissenso, si alzano e abbandonano il tavolo senza dire una parola, dandosi la schiena, non potendo lasciare la stanza. Tra loro, sul tavolo, i posacenere si riempiono progressivamente, i fogli degli appunti si fanno più confusi.
Il tavolo è il luogo dove si tesse, lento ma preciso, il trionfo della ragione, dove si insegue la verità con l’aiuto di due soli strumenti: il dialogo e il confronto.
In Coffee and Cigarettes di Jim Jarmush (2003), invece, il dialogo è continuamente interrotto e difficoltoso. Un esaltato (e decisamente over caffeinated) Roberto Benigni non fa che ripetere Yes! Good! Thank you! a sproposito; il cameriere vorrebbe parlare con Renée, che invece taglia sempre corto, educata ma decisa, e preferisce rimanere in silenzio a fumare e zuccherare il proprio caffè.
In comune questi scambi non hanno solo, come suggerisce il titolo del film, la passione per il caffè e le sigarette, ma soprattutto l’insistenza sull’elemento tavolo (ben undici), attorno al quale i personaggi, presentati per lo più a coppie, si parlano e si fraintendono, sketch dopo sketch.
Non è un caso che i tavolini presentino sempre il motivo della scacchiera: quella che è in atto tra i personaggi è una partita che si gioca su regole diverse, in un dualismo esasperato alla perfezione, in cui le parole sono armi senza punta, quasi ridicole.
In legno chiaro, rotondo, pieghevole, allungabile. Con il top in cristallo, rettangolare: il tuo tavolo racconta qualcosa di te, anche da lontano.
E, allo stesso tempo, quello che c’è sul tavolo non è che un simbolo di ciò - o di chi - gli sta attorno.
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